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San Martino, castagne e vino

Parco Adda Nord: le tradizioni autunnali

La prossima tappa del nostro viaggio nelle terre del Parco Adda Nord, è dedicata ai colori e ai profumi dell’autunno.

In passato, più che ora, da sud a nord, i mesi di settembre ed ottobre erano i mesi della raccolta delle pannocchie, delle castagne, dell’uva mentre novembre era il mese della sfogliatura, essicazione, fermentazione. Da Cassano d’Adda a Trezzo sull’Adda, da Imbersago a Monte Marenzo sappiamo che la coltura della vite era praticata sin dal tempo dei Romani. Sarà diffusa poi grazie all’azione dei monasteri, come quello benedettino di San Giacomo di Pontida ma anche quello dei Carmelitani Scalzi di Concesa.

Dal Quattrocento le nobili famiglie milanesi iniziano ad investire nei vigneti e, se giungono a Trezzo sull’Adda per la vendemmia, vengono anche rifornite dai rinomati vigneti della sponda bergamasca e lecchese. Fino alla metà dell’Ottocento abbiamo testimonianza di cantine, osti e osterie, torchi da vino, negozi e produttori di botti, in rovere e castagno. In sponda bergamasca e lecchese molte varietà vengono mescolate insieme nello stesso vigneto e nello stesso filare, vengono perciò prodotti vini bianchi e rossi genericamente denominati nostranelli. Dai vigneti di Trezzo sull’Adda si ricavavano vini frizzanti e corposi, come il “Moscatello d’Adda” e il “Passito di Castelbarco”.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando ormai la filossera aveva distrutto buona parte dei vigneti, la famiglia Pirovano a Vaprio d’Adda si cimenta con gli innesti, dando vita alla “Delizia di Vaprio” e “l’Uva Italia”. Ancora in pieno Novecento a Trezzo sull’Adda si produceva un vino rosso da tavola di cui si potevano bere i primi bicchieri a San Martino (11 novembre). Ed è questo santo guerriero, patrono dei viticultori e dei vendemmiatori, a cui era associato il calendario agricolo e la cui devozione si diffuse nelle nostre terre dopo la dominazione dei Franchi, a portarci a nord del parco, dove a lui è dedicata un’intera valle.

Queste terre, dove colline e montagne si affacciano sul fiume, sono conosciute per una particolare lavorazione delle castagne che presuppone una precisa tecnica artigianale basata sull’essicazione lenta del prodotto in particolari cascinali. Antichi saperi e tradizioni, tramandati dall’Ecomuseo Valle San Martino e mantenuti in vita ancora da alcune famiglie, anche se oggi la coltura della castagna ha perso l’importanza di un tempo. In passato infatti le castagne costituivano l’alimento base di queste zone, soprattutto in inverno, quando venivano mangiate a colazione (castagne e latte) a pranzo e cena: dopo la loro essicazione si otteneva infatti una farina che serviva per il pane, la polenta e persino le torte.

Nella zona di Monte Marenzo, il castagneto veniva chiamato selva, ma non con il significato di bosco oscuro, anzi, con l’accezione di qualcosa di selvatico che veniva addomesticato, proprio perché fonte di cibo. Le castagne più brutte venivano date in pasto agli animali ma quelle più belle diventavano importante merce di scambio, soprattutto con le aree a sud del parco.

Gli statuti prevedevano che la raccolta delle castagne da parte del proprietario, terminasse proprio a novembre, dopodiché anche i poveri potevano andare liberamente a raccogliere i frutti. Un’antica credenza popolare afferma che il riccio contenga tre castagne: una per il padrone, una per il contadino e una per i poveri. Non mi resta che augurarvi una buona passeggiata!

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Ph visore: Pontida, vigneti e boschi in autunno (Claudia Gerosa)

Testo a cura di CLAUDIA GEROSA, guida abilitata ConfGuide-GITEC 

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Portami qui: San Martino, castagne e vino

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